Sessione al parco (prima parte)
Torna al blog

Sessione al parco (prima parte)

Oggi l’appuntamento è stato al bar. Sono arrivata con un po’ di anticipo e, finalmente, in lontananza, dalla vetrata, lo vedo arrivare e non aspetto altro che gettarmi tra le sue braccia. Tutta questa attesa mi ha enormemente eccitata e scombussolata, ho bisogno del suo conforto, delle sue braccia, dei suoi baci e dei suoi abbracci, delle sue carezze, della sua gentilezza, della sua severità e onnipresenza, del suo eterno potere su di me.

Lo vedo entrare nel bar e punta dritto verso di me: io scatto in piedi per avvicinarmi a lui e abbracciarlo. Appena scatto in piedi mi guarda male. In quel momento mi rendo conto che aveva dato un ordine nelle sue istruzioni: non alzarsi mai dal tavolo se non per emergenza. Il suo arrivo, per quando mi riempia di gioia, non è affatto un'emergenza ma ormai il danno è fatto, quindi non mi resta altro da fare che reggere il gioco con un sorriso mesto.

Lui mi guardò con quello sguardo carico di sentimento, pieno di aspettativa,cercando nel mio sguardo qualcosa che potesse rivelargli il mio stato d’animo del momento.

Mi stringe in un abbraccio e sento uno strano clack ma sono così confusa, eccitata, così presa dell’amozione da non rendermi nemmeno conto di quanto mi circonda: sono troppo presa da lui e dal suo universo. Ormai anche la semplice ansia per non aver rispettato i suoi ordini ed essermi alzata per accoglielo, mi aveva ormai offuscato il cervello. Non solo la sua presenza mi portava in questo stato, ma anche il suo pensiero, la sua partecipazione alla mia vita. Io non volevo altro che ringraziarlo per quello che mi aveva concesso.

In quel momento mi fa cenno di alzarmi e che potevamo andare. Mi affretto a raccogliere le mie cose ma, in quel momento mi rendo conto che devo urgentemente andare in bagno. Io cerco di farglielo capire, di esprimergli il mio disagio del momento ma lui semplicemente sorride e mi accompagna al bagno del locale.

Vado al bagno e lascio la dolcezza del suo abbraccio e mi avvio nel piccolo loculo. Cerco di slacciare i pantaloni ma in quel momento mi rendo conto che c’è un problema. In quel momento mi rendo conto di quel che era successo prima, di quello strano clack: lui non mi ha dato il permesso di liberarmi ma solamente di andare in bagno fisicamente. Mi rendo conto, molto semplicemente, che il controllo che ha su di me è completo e totale. Lui mi possiede in ogni singola parte di me. Io non sono semplicemente sconvolta da questa rivelazione del momento, da questa presa di coscienza improvvisa, ma ero estremamente sollevata di rendermene conto. Senza lui non sarebbe la stessa cosa. Io ho bisogno di lui, ho bisogno del suo controllo e del suo amore, io non voglio altro che lasciarmi andare nelle sue mani, sempre e comunque, con tutta la calma e la tranquillità, con la stabilità che lui mi dà.

Arresa all’evidenza che non sarei mai riuscita ad andare in bagno senza togliere i pantaloni apro la porta ed esco dal bagno, trovandolo davanti a me ad aspettarmi. Voleva capire quando mi fossi resa conto di quanto potere io gli avessi ceduto, consciamente o meno, di quanto impostate fosse il nostro reciproco impegno.

Io lo guardo in cerca di conforto, attenzione forse, non so di preciso, ma in quel momento non voglio altro che lui, così tiro fuori a forza quelle poche ed essenziali parole. Escono in un sussurro, dopotutto siamo sempre in pubblico, parlare a voce normale è fuori discussione. Glielo chiedo così, dolcemente, semplicemente: “Padrone, posso andare in bagno?”

Lui semplicemente scuote la testa ma è evidente che in quel momento lui non vuole che io mi liberi, non lì, non così.

racconto bdsm

Nessun problema, avrei aspettato il suo ordine. Sarei rimasta ad aspettare il suo ordine finché avessi potuto, fosse stato per me non avrei fatto altro che aspettare i suoi ordini.

Mi prese la mano e ci avviammo fuori dal locale, pronti a riprendere la strada verso casa. Camminare con la consapevolezza di non poter disporre del mio corpo nemmeno per una cosa così basilare come andare in bagno, non mi lascia tranquilla, adesso avevo sempre più il terrore di essere costretta a liberarmi attraverso i pantaloni.

La strada del ritorno a casa è costellata di pensieri a differenza di quella che ho fatto prima: ora ho il chiodo fisso di andare in bagno, di non poterlo fare, di non riuscire a trattenermi abbastanza a lungo ed essere costretta a farmela addosso, di non riuscire a controllarmi abbastanza per soddisfarlo. So di essere piena di paranoie ma ormai ci ho fatto l’abitudine: i dubbi ormai mi fanno compagnia costantemente, non c’è momento in cui non penso di star facendo un errore.

Continuiamo a camminare a braccetto, così ho anche un costante sostegno per i miei poveri piedi costretti nei tacchi alti. Questa volta, persa nei miei pensieri, non mi sono accorta che ha preso lo sterrato, più breve ma più complicato per me.

A un certo punto comincia a parlare, facendomi delle domande: “Come ti senti?

“Frastornata, non so più a che sensazione dare ascolto di più, è tutto insieme.”

“Vuoi smettere e riprendere più tardi?”

“No, assolutamente. Mi fido di te, so che non esagererai con me, che non mi chiederai mai qualcosa che non posso sopportare.” Lo guardo sconvolta che possa anche solo preso in considerazione qualcosa di così assurdo ai miei occhi.

Bene.” Una parola per tutto, una parola a racchiudere qualunque pensiero che possa sorgere in entrambi. “Come ti sei sentita a casa quando hai ricevuto gli ordini?

“Confusa, non riuscivo a capire cosa stesse succedendo. Però, ecco...Magari potresti scegliere più spesso cosa farmi indossare...” Dico con una punta di imbarazzo nella voce. Ammettere questo genere di cose mi ha sempre molto imbarazzata, anche con lui.

“Vedremo.” risponde con risolutezza. “Al bar, ad aspettare, com’è stato?”

“Oh, è stato un po’ strano ma, dopo, è stato davvero wow. Parecchio imbarazzante ma grazie mill, vorrei ringraziarti come si deve ma qui non è il luogo adatto direi, quindi appena arriviamo a casa mi inventerò qualcosa per ringraziarti a dovere.” Rispondo con entusiamo, tutto quello che riesco a metterci.

“Sbaglio o ti avevo detto che non dovevi pensare? Come ti permetti di dire che non è un luogo adatto? Questo direi che è un compito che spetta a me, sono io che decido dove e come fare le cose, cosa fare e come deve essere fatto. Non ti permettere mai più di dirmi una cosa del genere. Sono io che decido in sessione, non tu. Ti è chiaro?”

Ha un tono così duro, mi mortifica questa tonalità, queste parole. Non volevo contrariarlo, ero solo così entusiasta che non ho pensato.

“Mi dispiace tanto, non succederà più, scusami...” Sono davvero così dispiaciuta…

Direi che questo è un posto adatto invece.” Afferma e io mi sento morire. Cosa? Okay, è scesa la sera e non c’è moltissima luce, è piuttosto isolato e siamo circondati dagli alberi con i cespugli, ma è pur sempre un luogo pubblico.

Il suo sguardo dice tutto e non mi resta altra scelta che chinare il capo e seguirlo. Ho, con tutta probabilità, già due punizioni, non voglio che lievitino ancora di più.

Lo seguo fino alla piccola radura circondata dai cespugli e mi inginocchio dove mi indica.

Devo dire che trovo molto strano essere in ginocchio vestita ma è anche l’ultimo dei pensieri, nonostante il pensiero mi strappi un sorriso.

“Abbiamo due punizioni e un ringraziamento da fare, quindi, pronta?”

Cerco di prendere un respiro profondo ma il corsetto me lo blocca sul nascere, così annuisco a fiato corto.

Sono pronta a quasi qualunque cosa mi attenda adesso. Non sono certa di voler sapere cosa mi aspetta, ma lo accetterò per principio.